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martedì 10 dicembre 2019

BIBLIOGRAFIA ITALIANA SU MILES DAVIS

    Quanto si è scritto in Italia su Miles Davis, tanto se pensiamo a tutte le recensioni dei suoi dischi apparse sulle varie riviste musicali e non. Ai tanti articoli apparsi sui vari giornali che in qualche modo hanno parlato di lui, dei suoi concerti, le interviste, etc. Per non parlare di tutto quello che si può leggere sul web e delle varie schede biografiche inserite nelle varie enciclopedie sul jazz e sul rock uscite in fascicoli settimanali o mensili, in edicola, con o senza allegati sonori come Lp, CD o Cassetta. 
   Ma se ci concentriamo unicamente sui libri pubblicati in Italia, tutto sommato non tantissimo. Sono solo 27 i libri che trattano solo ed unicamente di Davis. 
     Se si pensa ad esempio al pop o al rock, nomi come i Beatles, Bob Dylan o Jimi Hendrix, le pubblicazioni a loro dedicate hanno numeri ben maggiori. Ma bisogna sempre considerare l'effettiva utilità e qualità di tutte queste parole scritte. Miles Davis è comunque un nome che tira ed assicura una certa continuità di vendite, nel tempo. La sua famosa autobiografia scritta con Quincy Troupe, la Minimum Fax l'ha ristampata già tre volte. E recentemente ha tradotto un saggio su Bitches Brew di George Grella. Il Saggiatore ha ben 6 volumi dedicati completamente alla vita di Davis ed alla sua attività discografica, tuttora disponibili in catalogo. La prima in assoluto ad essere pubblicata in Italia è stata nel lontano 1982 la ormai introvabile 'biografia critica' di Ian Carr (trobettista jazz e leader del gruppo jazz-rock Nucleus), tradotta e stampata dalla Arcana Editrice allora diretta da Riccardo Bertoncelli. Vederla ristampata nella sua ultima versione aggiornata, non sarebbe male. 
     Ci sono anche giornalisti italiani (gran parte provenienti dalla fucina critica della rivista milanese Musica Jazz) che si sono cimentati, con loro saggi, su Miles Davis, citerei tra tutti: Luca Cerchiari e Gianfranco Salvatore. Su Miles Davis c'è anche una 'bio' a fumetti disegnata dall'italiano Lucio Ruvidotti. 
   Senza entrare nel merito delle varie pubblicazioni, direi che una volta letto la sua autobiografia, quella critica di Carr e l'altro libro scritto da Quincy Troupe su Miles Davis, basta e avanza. L'importante è sentirlo ancora suonare dai solchi dei suoi dischi.
      Una precisazione: in foto ci sono le copertine delle prime edizioni citate nella cronologia, la quale si basa su fonti personali e ricerche sul web.

di : Gianfranco Ventrosini

Bibliografia italiana cronologica su Miles Davis:

Ian Carr, Miles Davis. Una biografia critica - Arcana Editore, 1982
Quincy Troupe, Io & Miles - Pequod Edizioni, 2003
AA. VV., Miles Gloriosus - Sidma Italy/Backbeat, 2003
Gianfranco Salvotore, Miles Davis. Lo sciamano elettrico - Stampa Alternativa 2006
Enrico Merlin / Chiara Bertola, Miles& (catalogo con scritti e varia su 
                                                 M. Davis) - Veneto Jazz, 2006
Richard Cook, Miles, live e in studio. Quattordici album fondamentali - Il Saggiatore 2008 
Enrico Merlin / Venerio Rizzardi, Bitches Brew. Genesi del capolavoro 
                                                    di Miles Davis - Il Saggiatore, 2009
AA. VV., Miles Davis Rewind (atti del convegno dedicato a M. Davis a Valenza) - Nov. 2011 
Guido Michelone, Miles Davis. Il sound del futuro - Barbera, 2011
Williams Richard, The Blue Moment. Come Kind of Blue ha cambiato la
                             musica - Il Saggiatore, 2011
AA. VV., Miles Davis. La storia illustrata - Il Saggiatore, 2013
Luca Cerchiari, M. Davis. dal be-bop all'hip-hop - Feltrinelli, 2013
Michael K. Dorr / Paul Maher Jr., Miles on miles. Incontri con Miles Davis - Odoya 2013
Miles Davis con Quincy Troupe, L'autobiografia - Minimum Fax, 2014
John F. Szwed, So What? Vita di Miles Davis - Il Saggiatore, 2015
Carlo Pasceri, M. Davis. Bitches Brew: guida all'ascolto - Dischi da leggere, 2015
Carlo Pasceri, Kind of Blue: guida all'ascolto - Dischi da Leggere, 2015
Massimo Donà, La filosofia di Miles Davis - Mimesis Edizioni, 2015
Guido Michelone, 
Gianfranco Nissola, Miles Davis. Principe delle tenebre - Arcana Editore 2016
Riccardo Bertoncelli, Miles Davis (Blue Note Best Jazz Collection vol.1) 
                                  + CD - De Agostini, 2016 
Ashley Kahn, Kind of Blue - Il Saggiatore, 2017
Enrico Merlin, Miles Davis 1959. A day by day chronology - Berlin Archemist Vaults, 2017
Lucio Ruvidotti, Miles Davis. Assolo a fumetti - Edizioni BD, 2018  
Guido Michelone, M. Davis. La vita, la musica il mondo - Melville 2019
George Grella, Bitches Brew. Il capolavoro di Miles Davis che ha rivoluzionato
                         il Jazz. - Minimum Fax, 2019








  

venerdì 29 novembre 2019

MARLENE SHAW, LA VOCE DELLA SOUL MUSIC CON UN'ANIMA JAZZ.

    Marlena Shaw (nata Marlina Burges a New Rochelle, New York) è una delle tante vocalist di talento del soul-jazz anni '70. Grazie allo zio Jimmy, trombettista jazz, nel 1952 a soli dieci anni, già si esibiva con un certo successo sul palco del mitico Apollo Theater di Harlem, durante le serate per dilettanti. Come lei stessa ha raccontato, pur timorosa e timida di esibirsi davanti ad un pubblico in genere distratto, cantava e suonava il piano accompagnando lo zio Jimmy, catturando totalmente l'attenzione degli ascoltatori in sala. Ma ci saranno voluti ben un decennio, dopo la scuola di musica imposta dalla madre, per rendersi conto che cantare sarebbe stato il suo futuro. 
    Poco più che ventenne, la si poteva già ascoltare nei jazz club in giro per New York. E' proprio grazie ad una di queste esibizioni serali che incontra i talent-scout della Columbia Records che le propongono un'audizione, che però non andò bene per la sua insicurezza. Sfumato il possibile ingaggio discografico, la Shaw continua ad esibirsi in giro, tanto che durante una serata a Chicago nel '66, nel Playboy Club locale, viene vista ed avvicinata dai manager della Chess Records per proporle un contratto discografico con la consociata Cadet Records. 
     La sua voce calda e suadente ben si adatta alla soul music di quegli anni in cui il sound Motown proveniente da Detroit condizionava discograficamente un po' tutti. 
     Gli anni in Cadet Records le fruttarono il suo primo e più duraturo successo discografico, grazie alla cover di "California Soul" scritto in precedenza per i 5th Dimension dalla coppia di autori di successi, Ashford & Simpson. Ancor oggi, la sua versione di "California Soul", così potente musicalmente, si può ascoltare non solo nelle radio indipendenti soul-jazz oriented in giro per il mondo, soprattutto in Inghilterra dove c'è stata una riscoperta negli anni del lavoro discografico della Shaw, ma anche perchè quel brano ben si è adattato nell'essere utilizzato in spot pubblicitari e talvolta campionato dai rappers. 
    Ma il suo stile vocale non è ancora ben definito, viaggiando tra un soul stile Motown ed un mainstream piuttosto sdolcinato. Probabilmente la giovane Marlene sente che forse il jazz è più vicino alla sua vocalità, e quindi nel '72 si accasa per tre anni alla Blue Note Records che proprio in quegli anni, affrancata dal be-bop e dal cool-jazz, inizia ad aprirsi discograficamente al soul-jazz. 
    Ma la buona stella del successo non brilla ancora del tutto e sulla sua strada ritrova la Columbia Records. In questi tre anni l'album SWEET BEGINNERS, il primo di questo triennio, è anche quello che più la rappresenta musicalmente al meglio delle sue possibilità vocali. La Shaw si confronta con la black-music nelle sue più varie declinazioni.
    L'album si apre con Pictures And Memories, originariamente affidata al quartetto vocale dei The Controllers, in puro philly-sound. A seguire troviamo due ballad come Yu-Ma composta dalla stessa Shaw e la cover di Go A Little Boy, dell'inossidabile coppia di autori, Carol King & Gerry Goffin. Precedentemente interpretata tra gli altri da Johnny Mathis e Nancy Wilson. Con The Writing's On The War il sound svolta verso ritmi a metà strada tra il funk ed il rock grazie all'estro compositivo di un certo Domenic Troiano. Quel Domenico Michele Antonio Troiano, italiano di nascita (Modugno in provincia di Bari), poi cresciuto in Canada, che prima di diventare famoso come autore di punta della disco-dance, come chitarrista aveva militato in gruppi rock come i Mandala, The James Gang e i più famosi The Guess WhoStrana la scelta di Walk Softly, una ballad dai toni molto più country che soul, estratta dal repertorio di un altro boss della disco anni '70 come Van McCoy, compositore ed arrangiatore, passato alla storia nel 1975 con il suo hit internazionale "The Hustle". Lo stile dance-floor attira nella rete un po' tutti, anche autori di un certo calibro come Leon Ware che in Motown ha scritto per Michael Jackson e soprattutto per Marvin Gaye. Di Ware la Shaw adotta Sweet Beginnings, il brano che da il titolo all'album. Look At Me. Look At You (We're Flyng), un brano arrangiato in chiave soul-jazz è tra i momenti più belli dell'intero album.
In stile soul anni '70 è invece l'altra composizione scritta dalla Shaw, No Deposit, No Return. Si prosegue con Jonnhy un'intensa love-ballad che precede l'atto finale, scritto questa volta da un'altra coppia di autori, Creed&Bell, che riportano la nostra brava Marlene Shaw verso il philly-sound con I Think I'll Tell Him. Di questo brano, se si ha voglia, andate a cercarvi la versione originale interpretata da Etta James arrangiata per orchestra jazz e con un bel assolo di sax. 
   Da qui in poi, la carriera della Shaw è proseguita tra alti e bassi, con buoni risultati commerciali nel periodo più strettamente legato al periodo dance. E nonostante abbia superato di molto i settant'anni è ancora in giro a cantare.  

di : Gianfranco Ventrosini
    









     

martedì 5 novembre 2019

HUMMINGBIRD, OVVERO L'ANIMA SOUL DEL ROCK MADE IN ENGLAND

   Perlustrando nei sotterranei del rock britannico, dove le contaminazioni sonore con il soul, il funk ed il blues sono sempre state di casa, talvolta si scoprono rarità che sono arrivate all'orecchio di pochi eletti appassionati. In tal senso, gli anni '70 sono stati per la musica in generale quelli più interessanti per quanto riguarda la nascita di band o solisti che, anche se rimasti ai margini del vero successo commerciale, ci hanno regalato delle piccole chicche sonore di gran qualità. Gli 'Hummingbird' di Bobby Tench ne sono un valido esempio.
  Robert 'Bobby' Tench, sin dalla nascita del suo primo gruppo, i 'The Gass', nel '65, si è fatto notare in particolar modo per la sua voce grintosa ma al tempo stesso capace anche di toni più lievi. Predestinata per il miglior rock-blues suonato e cantato, girando per locali nel west-end londinese: il Rasputin's, il The Speackeasy o il The Flamingo Club. Ma Tench è stato anche per molti anni un richiestissimo sideman come chitarrista, compositore ed arrangiatore.
    Dal '74, anno del loro debutto discografico con la A&M Records fino al '77 quando poi il gruppo si è sciolto, Tench e soci, in parte fuoriusciti dal secondo Jeff Beck Group, ci hanno lasciato solo tre dischi con il loro sound che partendo da un elegante rock-blues di matrice tipicamente inglese, si è fatto contaminare dal soul, dal jazz e dal funk proveniente dagli USA. Ma solo il terzo album, confermando una certa maturità stilistica, è veramente di buon livello, godibile e molto più orientato al soul. 
   Già dal primo album il loro sound si perdeva in arrangiamenti più elettro-rock, facendo da base a canzoni piuttosto spente e melense, così pure la loro seconda uscita discografica.
    'DIAMOND NIGHTS' il loro terzo album, è di questo che stiamo parlando, è veramente un piccolo gioiello sonoro. 
    Il lato A si apre con un aspro funk dal titolo: God My "Led Boots" On. Subito dopo l'aria si fa più serena con la ballad Spirit. Il giro di accordi funky della chitarra ed i fiati messi ben in evidenza c'introducono Cryin For Love. Bellissima love-ballad soul-jazz è She Is My Lady, il brano migliore di tutto l'album. Si prosegue con la cover di uno dei cavalli di battaglia degli Earth, Wind & Fire scritta da Skip Scarborough, quella You Can't Hide Love che in tanti hanno interpretato in seguito, e qui forse sporcata un po' troppo dal synt di Max Middleton, tastierista che si è prestato per Jeff Beck, The Bee Gees, Peter Frampton e Chris Rea, tra gli altri, nonchè anche autore di ben tre brani di quest'album.
    Il lato B si apre con uno strumentale, Anaconda, dalle sonorità molto simili al primo jazz-rock/fusion. Madatcha, col tempo in levare un po' reggae ed un po' funky è uno dei due brani scritti da Roger Chapman, la voce leader dei Family, altra band inglese che ha cavalcato per un decennio tra i '60 e i '70 su sonorità rock, jazz-fusion e progressive. Torniamo ad un soul più marcato con Losing You (Ain't No Doubt About You), ma subito dopo Spread Your Wings ci riporta al philly-sound, e l'autore è ancora Chapman. 'DIAMOND NIGHTS' si conclude con lo strumentale Anna's Song dove il synt di Middleton la fa da padrone.
  Tra le curiosità di 'DIAMOND NIGHTS' acenniamo alla presenza in formazione del batterista di colore Bernard Purdie, che in questo album ha curato anche quasi tutti gli arrangiamenti degli archi e dei fiati, session man richiestissimo e che ha fatto parte anche degli Ubiquity di Roy Ayers. Altra curiosità è la presenza di Clive Chaman al basso, avvistato anche nel Jeff Beck Group e nei Brian Auger's Oblivion Express. Ed infine citiamo la presenza alle percussioni del brasiliano Airto Moreira la cui carriera si è spesso intrecciata con quella della moglie e cantante Flora Purim, sia in ambiti fusion che puramente brasiliani. Ultima chicca di questo album, poi non confermata nei solchi del disco, è che in un primo momento in sala d'incisione ci fosse anche lo stesso Jeff Beck a dare una mano a Tench e amici, poi repentinamente ritiratosi per proseguire i suoi progetti del momento.

di : Gianfranvco Ventrosini

martedì 22 ottobre 2019

I RAFFINATI IMPASTI VOCALI DEI RARE SILK



   Le giovani sorelle Gillaspie, Mary Lynn e Gaile, sin da piccole hanno respirato le sonorità jazzistiche delle Big Bands e di Ella Fitzgerald grazie al padre trombettista, lì nel sud della California dove sono cresciute. Nel sangue c'era già ben impresso il talento del canto, tanto che trasferitesi entrambe a Boulder, un piccolo centro del Colorado, Gaile, la sera iniziò a cantare in un club locale. 

    Ma la voglia di metter su un gruppo vocale era proprio forte, ma la sorte le aiuta incontrando altri due cantanti con la voglia di emergere, Marguerite Juenemann e Todd Buffa. Siamo alla fine degli anni '70 e nascono ufficialmente i Rare Silk.
   I loro gorgheggi iniziavano a farsi sentire periodicamente attraverso i microfoni di una radio locale e nei club della zona. Ma il loro vero debutto gli viene offerto nel 1980, quando vengono ingaggiati per aprire la serata prima del concerto di Benny Goodmann al Playboy Jazz Festival. 
   Ormai il loro vocal-swing si era fatto notare e finalmente nel 1983 entrano in studio per registrare il loro primo disco, NEW WEAVE per la Polygram Records. Un lavoro discografico notevole, i loro impasti vocali sono praticamente perfetti e gli arrangiamenti di tutti i brani, ben si adattano alle loro virtù vocali.
  Ad accompagnarli in questo primo viaggio ci sono anche i fratelli Brecker, Randy alla tromba e Michael al sax tenore, ovvero due grandi turnisti che brillano con i loro fiati in tantissimi dischi di jazz, fusion, r'n'b e pop music.
   L'apertura è con la brillante esecuzione della cover di un brano strumentale composto dal sassofonista Richie Cole, New York Afternoon che porterà i Rare Silk ai piani alti della Billboard Jazz Album Chart, raggiungendo la 20° posizione.
   Che siano brani veloci o delle ballad, le voci dei quattro Rare Silk non hanno incertezze, basti sentire di seguito gli altri tre brani che chiudono il lato A del disco, Red Clay scritta originariamente dal tormbettista bopper Freddie Hubbard (che negli anni '70 ha lasciato varie tracce suonando soul-jazz commerciale) e da Mark Murphy. You Know It's Wrong scritta dagli stessi Gillespie e Buffa e la notissima Lush Life di Billy Strayhorn.
   Come si può notare, le cover che i quattro vocalist hanno scelto per questo primo disco non sono certo brani di quelli facili da riarrangiare ed interpretare vocalmente. Il lato B si apre con Joi! una composizione di Buffa e si prosegue con (I Can Recall) Spain del trio Al Jarreau/Chick Corea/Artie Maren. Sugar è un classico del soul-jazz della CTI Records scritto dal sassofonista Stanley Turrentine e bene hanno fatto i Rare Silk a coinvolgere nella loro versione un ottimo Gary Bartz al sax alto. Bartz lo ritroviamo anche in Happying, un brano scritto dal pianista americano di origini fillippine Joseph 'Flip' Nunez. Nel finale di disco ritroviamo la firma di Richie Cole con la ballad dal titolo D. C. Farewell
   NEW WEAVE termina qui ed in un certo senso forse anche il buon succeso commerciale dei Rare Silk che con i due dischi che seguirono si sono persi in suoni più elettronici e cambi di formazione per poi separarsi definitivamente.

di : Gianfranco Ventrosini     




lunedì 21 ottobre 2019

NOTE D'AFRICA NEL SOUL-JAZZ DEI PACIFIC EXPRESS

   Con base a Cape Town a metà anni '70, tre musicisti di colore, Paul Abrahams al basso, Jaxk Momple alla batteria e Issy Ariefdien alla chitarra e voce, diedero vita ai Pacific Express. Il loro sound era già ben definito e influenzato da quello che arrivava dai lontani USA: un po' di funk raffinato, ritmiche in levare e sonorità soul-jazz eleganti e molto radiofoniche. 
   Almeno per quel che riguarda il loro primo disco BLACK FIRE pubblicato in South Africa dalla EMI nel 1976. A loro tre, in questo primo progetto discografico si affiancò una sezione fiati di assoluto talento composta da Basil Mannenberg Coetzee al sax tenore e al flauto, e Robbie Jansen alla tromba, sax alto, flauto e voce solista, nonchè lui stesso arrangiatore della stessa sezione fiati. L'aggiunta di Zany Adams voce solista e percussioni e Chris Schilder al piano elettrico contribuiscono a dare a tutto il disco un'impronta molto jazzistica. La finale Wild Song con le sue improvvisazioni di piano mai scontate ne è una prova. 
    Ma già dall'iniziale Brother che ha un inizio molto r'n'b che ricorda molto gli statunitensi Blood Sweat & Tears si capisce che i fiati ed il Fender Rodhes la faranno da padroni in ogni solco del disco. Feelings (Deep In Your Heart) è una ballata corale. In Sky Ride II entrano in gioco le percussioni di Adams per un tocco brasilian style molto godibile dove gli interventi di flauto e piano elettrico ricordano molto il jazz-samba americano di quegli anni. Heaven (I've Found In You) è un brano cantato con un arrangiamento che a tratti ricorda i Chicago prima maniera. 
   Il secondo lato del disco si apre con Black Fire che arriva nei solchi con ritmi sostenuti e i fiati a contrappuntare il tema principale dell'intero brano strumentale. Anche You're Everything, per i suoi impasti vocali ricorda molto i Chicago, ma è molto più soul. Siamo sul finale di partita e i Pacific Express sfoderano un rock-blues inaspettato con Love Your Baby Right. La chiusura è con Wild Song di cui si è già accennato, con un inizio forse un po' scontato, ma quando inizia il suono del Fender Rhodes di Schilder tutto cambia in bello e godibile.
  Dopo BLACK FIRE, i Pacific Express hanno dato alle stampe altri due dischi, ON TIME nel '78 ed EXPRESSIONS nel '79 per la piccola etichetta locale Gull, ma buttandosi su sonorità più pop e melense di nessun interesse, sebbene con un successo commerciale più ampio.

di : Gianfranco Ventrosini

  



lunedì 14 ottobre 2019

ALLA RICERCA DI NUOVI STANDARD _ capitolo 02 L'ANIMA JAZZ DI Mr. BOZ SCAGGS

   Prima nel 2003 con "BUT BEAUTIFUL" e poi con "SPEACK LOW" nel 2008, Boz Scaggs si è lanciato a capo fitto nel nutrito mare magnum del repertorio degli standard jazzistici e non solo. Forse un capriccio, o forse solo un modo per far sapere ai suoi sostenitori di un glorioso passato, che nelle sue corde di musicista e cantante c'è anche qualcosa di ancora più raffinato, allontanandosi mille miglia dal suo hit 'Lowdown', che per i tempi (1976) raffinato lo era per davvero, con quella miscela di pop, soul e jazz. 
  In "BUT BEAUTIFUL" la pianificazione nella scelta degli standard è forse un po' più prevedibile. La voce pacata di Scaggs si confronta con i classici del 'songbook' americano egregiamente supportato da arrangiamenti semplici con basso, batteria, piano e sax.
   Il disco si apre con What's New? nata originariamente come popular song ma poi adottata dall'orchestra di Bob Crosby. Never Let Me Go (1953) è tratta dalla colonna sonora del film Scarlet Hour. How Long Has This Been Goin Gone? degli intramontabili George & Ira Gershwin ritorna a farsi sentire in un contesto 'pop-rock' visto che già Van Morrison l'aveva inserita nel suo 'live' omonimo del 1995. Su Sophisticated Lady c'è poco da dire quando a scriverla c'è uno come Duke Ellington. But Beautiful altra movie song del 1947 cantata in seguito dal Sinatra e Bing Crosby. Con Bewitched, Bothered And Bewildered di Rodgers & Harts ci immergiamo nelle scene del musical Pal Joey della Broadway anni '40. 
   Rimaniamo sempre a Broadway con Easy Living. I Should Care è l'ennesima popular song semi-sconosciuta che risorge e diventa uno standard del jazz e non. Cantata da Sinatra nel '45, è stata poi ripresa negli da Dizzy Gillespie, Nat King Cole, Bill Evans e tantissimi altri famosi jazzisti. Ma anche da artisti più pop come Barry Manilow nel 1994 in Singin' With Big Bands e più recentemente da Ami Winehouse nell'album postumo At The BBC del 2012. 
   Ci avviamo verso la fine di questo primo viaggio, prima con You Don't Know What Love Is, altro brano cinematografico degli anni '40 più volte ripreso da vari musicisti tra cui citerei la versione strumentale di Miles Davis in Walkin' (1954) ed una un po' più particolare del cantautore e chitarrista inglese John Martyn nel suo album Glasgow Walker. E poi con For All We Know, altra popular song del 1934, anch'essa entrata nel repertorio di tanti, ma molto bella e intensa è la versione che hanno lasciato ai posteri Donny Hathaway e Roberta Flack.
   Invitation è il brano di apertura di "SPEAK LOW" ed ha una storia particolare, perchè quando fu inserita nel film di George Kukor A life of her own (1950) passò del tutto inosservata. Mentre due anni dopo, nel '52, comparve nella pellicola omonima dandone nuova luce e molti musicisti e cantanti la inserirono nel proprio repertorio. Tra questi il sax di John Coltrane e la tromba di Roy Hargrove che ci ha improvvisamente lasciato di recente. 
  She Was Too Good To Me è un classico di Broadway firmato Rodgers & Hart. Scritta dal pianista jazz Billy Taylor per la figlia, I Wish I Knew è del 1963. Speak Low porta la firma di Kurt Weill per il musical da lui scritto nel 1943. Ritroviamo Duke Ellington con Do Nothing Till You Hear From Me. Con I'll Remember Aprill, Scaggs si cimenta con uno dei più classici standard e forse insieme a Speak Low sono i brani più belli di questo lavoro. Save Your Love For Me è un blues scritto da Bud Johnson. Il cammino prosegue con Ballad Of The Sad Young Man scritta da Johnny Hartman. 
   Skylark (1941) porta la firma di Johnny Mercer con le musiche di Hoagy Carmichael, che si ispirò alle evoluzioni con la cornetta di Bix Beiderbecke. Anche Bob Dylan l'ha interpretata in un suo disco (Fallen Angel, 2016). 
  L'inserimento in scaletta di Senza Fine del nostro Gino Paoli, cantata da Scaggs in inglese, un po' sorprende, ma se poi pensiamo che l'ha interpretata anche Dean Martin, allora la cover del Boz ci piace ancor di più. E sulla stessa linea arriviamo ad un classico della musica brasiliana con Dindi di Jobim, uno dei capisaldi della bossa-nova. La fine del disco è segnata da un altro classico firmato da Johnny Mercer & Harold Arlen, This Tme The Dream Of Me
   Rispetto al precedente BUT BEAUTIFUL, SPEAK LOW è leggermente più orchestrale per l'inserimento degli archi, ma l'interpretazione di Boz Scaggs è sempre pulita ed intimista, rendendo i due lavori assai godibili.

di : Gianfranco Ventrosini 

lunedì 30 settembre 2019

Libri in vetrina #01_ THEODOR W. ADORNO, Variazioni sul Jazz - MIMESIS EDIZIONI, 2018

   Se c'è una teoria su cui Adorno non è stato profetico fino alla fine, è sicuramente quella sulla mercificazione della musica jazz. Il jazz è stato e rimane tuttora, discograficamente un genere di nicchia, dove le vendite dei dischi non hanno mai fatto grandissimi numeri, se non durante le sue ramificazioni più commerciali come il jazz-rock ed il soul-jazz degli anni '70. Le eccezioni sono assai poche ed appannaggio di nomi altisonanti come quelli di Miles Davis o Keith Jarrett.
  In Variazioni sul Jazz, si può finalmente rileggere l'Adorno e la sua visione critica sul Jazz, a volte anche immotivatamente assai aspra. 
   Gli scritti vanno dagli anni '30 fino a metà anni '50. Non è una lettura facile per tutti, soprattutto quando negli scritti più teorici si palesa l'Adorno musicista che scrive di tecnica compositiva. Complimenti comunque all'editore Mimesis che ha avuto il coraggio di rendere di nuovo disponibili questi saggi in un unico libro.

di : Gianfranco Ventrosini

martedì 3 settembre 2019

SEGNALAZIONI EDITORIALI _ #03

   Davvero un gran bel numero questo di Agosto 2019 dato alle stampe dalla redazione di Musica Jazz, probabilmente il migliore di quest'anno, sino ad ora. 
  La cover story è dedicata all'incontrastato Maestro della Bossa Nova, Joao Gilberto da poco scomparso in completa solitudine e con controverse beghe familiari. Ben tre articoli brevi aiutano il lettore a capire quanto sia stato importante la figura ed il sound creato da Joao Gilberto per la musica in brasiliana ma anche internazionale tutta. Uno dei due CD allegati alla rivista è proprio dedicato lui. 
  L'altro CD è dedicato al pianista Herbie Nichols con un ampio dossier che ne riporta alla luce la storia e la maestria.
  Il nome di Cindy Blackman è ultimamente associato a quello del marito Carlos Santana, ma per i più attenti jazzofili la Blackman è una batterista jazz di gran livello, così come si scoprirà leggendo l'intervista a lei dedicata.
   Altro giro di pagina per scoprire come dietro a tanta bravura, talvolta si nasconde scontrosità e antipatia. Basta leggere l'intervista ad Esperanza Spalding.
   Una costante editoriale degli ultimi anni di Musica Jazz è quella di aggiornare i lettori su tutto quello che succede a Cuba e dintorni, e in questo numero lo fa intervistando il pianista Hilario Duràn. 
   Senza nulla togliere al resto degli articoli e recensioni, da segnalare ci sono due articoli che parlano del ritorno discografico di due artisti che in modo diverso ed in anni differenti hanno lasciato un segno nella musica degli USA, ovvero Marvin Gaye con il disco postumo Troubles Of A Man che come si vedrà così nuovo ed inedito poi non è, ed il ritorno discografico della cantautrice Rickie Lee Jones con il nuovo Kicks. 

di: Gianfranco Ventrosini 


venerdì 28 giugno 2019

QUANDO L'ISPIRAZIONE NASCE DALLA PRIVAZIONE DELLA LIBERTA': IL SOUL/FUNK DI IKE WHITE


  Avere come sponsor Stevie Wonder quando sei un perfetto sconosciuto, non è da tutti. Se poi meditiamo sul fatto che il nome di Ike White non è nemmeno menzionato tra le pagine di alcun libro dedicato alla black-music e che solo qualche DJ statunitense o londinese l'abbia riscoperto in tempi più recenti, questo ci conferma ancora una volta che il talento, spesso, non si accompagna al successo. 
  Di Ike White si sa veramente poco, se non che all'epoca dell'uscita di questo suo unico disco, CHANGING TIMES (1976), si trovava recluso in una piccola prigione della contea di Los Angeles. Siamo alla metà degli anni '70, il decennio in cui esplode ed implode tutto nella musica. I generi si fondono tra loro e soprattutto la black-music, da soul, da funk, diventa 'Disco' grazie ai Dj che la manipolano e la mixano sui loro piatti nelle discoteche New York. 
   Il disco, realizzato a quanto sembra interamente all'interno della prigione, ha la fortuna di avere la produzione nelle mani di Jerry Goldstein (già produttore dei War) e come musicisti: Doug Rauch al basso (che ha suonato anche con Carlos Santana) e alla batteria Greg Errico (uno dei fondatori dei Sly & Family Stone). White invece, oltre a comporre tutti i brani del disco (da solo o in compagnia) suona le tastiere e la chitarra elettrica.
  Evidentemente le idee e le contaminazioni sono lì tutte nella mente di White, pronte per essere incise nei sochi di questo disco che rappresenta un po' il suo riscatto con il mondo esterno, oltre le sbarre della sua cella.


   C'è il soul-blues crudo di Changin' Time che apre le danze della facciata A, seguita da una tenera ballata come Coming' Home (forse un augurio a se stesso?) e prosegue con la tirata  iniziale rockeggiante della sua chitarra elettrica in Antoniette, che nel finale si addolcisce con note più jazzate.  
   Il lato B inizia con I Remember George, un blues dal sapore spaziale con in evidenza il wa-wa della chitarra di White. Happy Face gli fa ritrovare la sua anima più soul che diventa più funk nella conclusiva Love And Affection.
  La migliore conclusione la lasciamo alle parole di Stevie Wonder immortalate per sempre sul retro della copertina del disco di Ike White: "Ci sono molti "Ike Whites" in questo mondo - diamo loro una possibilità - in modo che il colore della loro pelle non sia destinato per sempre dietro le sbarre".

di : Gianfranco Ventrosini

  

martedì 25 giugno 2019

LA MUSICA IN TASCA: PICCOLA STORIA DEI LIBRI TASCABILI CHE PARLANO DI MUSICA _ Capitolo 03

  La musica jazz in Italia, fino alla fine degli anni '50 è stata un po' una passione da carbonari. Con la fine della seconda guerra mondiale, dal 1945 iniziarono ad essere pubblicati i primi numeri della rivista Musica Jazz, nata dall'illuminata passione del giornalista Giarcarlo Testoni. Musica Jazz è stata per decenni il punto di riferimento per tutti gli appassionati e non solo. Vi hanno scritto le più importanti 'penne' critiche ed i maggiori storici di musica jazz italiani e stranieri. Gli stessi che negli anni a seguire hanno scritto molti libri sull'argomento, che ancor oggi sono un punto di riferimento per chi voglia approfondire, storicamente e criticamente l'evoluzione della musica jazz.
   Per quanto riguarda questa piccola storia dei libri tascabili sul jazz pubblicati in Italia, solo recentemente sono entrato in possesso casualmente, di quello che dovrebbe essere il primo testo sul jazz 'in formato tascabile' pubblicato in Italia. Mi riferisco al libro I MAESTRI DEL JAZZ di Lucien Malson (ediz. orig.: Le Maitres du Jazz - Francia, 1954) stampato dall'editore Garzanti nel 1954 fino alla terza edizione (quella in mio possesso) nel 1957. Quello di Malson, giornalista che ha scritto di jazz per le riviste Jazz Hot e Jazz Magazine, è un libro di facile lettura, con poco più di un centinaio di pagine, fermandosi storiograficamente al Be-Bop.
  Nel 1959 l'editore Feltrinelli per la famosa collana Universale traduce e da alle stampe MANUALE DEL JAZZ di Barry Ulanov (ediz. orig.: A Handbook of Jazz, USA - 1957), che viene anche riproposto in una seconda edizione nel'60 in versione aggiornata. Ulanov è stato un'altra firma storica del giornalismo musicale in America. Il suo è un vero e sintetico manuale, diviso per voci e con una seconda parte dedicata ai singoli musicisti, come se fosse una mini-enciclopedia.   
   Per leggere qualcosa di più corposo dobbiamo aspettare IL NUOVO NUOVO LIBRO DEL JAZZ di Joachim Ernst Berendt (ediz. orig.: Das Neue Jazzbuch - Germania, 1959) edito da Sansoni nel 1960. Il libro di Berendt è un punto saldo nella saggistica della musica jazz, tanto da meritare varie ristampe negli anni per editori diversi, più o meno aggiornate (Garzanti, Vallardi, Odoya). Nella prima edizione italiana di quasi 400 pagine, l'autore si ferma accennando ai primi anni '70, o meglio a quello che potrebbe essere la scena futura del jazz. La cosa è un po' strana, perchè se il libro originale è del '59 e la versione italiana della Sansoni è stata stampata a Marzo del 1960, è arduo pensare che Berendt avesse informazioni tali da prevedere quello che sarebbe accaduto negli anni '70. Infatti l'aggiornamento arriva con l'edizione corposa da 483 pagine che pubblicherà l'editore Vallardi nel 1986, dove si arriva fino al "jazz-rock degli anni '60 e poi fusion negli anni '70" con un breve cenno a quello che stava concretizzandosi stilisticamente nel jazz, agli albori dei primi anni '80.
   Ma il 1960 si rivela un anno interessante per quanto riguarda il mercato librario del jazz in formato tascabile. Escono a distanza di qualche mese l'uno dall'altro, IL LIBRO DEL JAZZ di S. G. Biamonte ed E. Micocci edito dall'editore Cappelli, e ben due tascabili della Ricordi scritti da Vittorio Franchini: IL JAZZ: LA TRADIZIONE e L'ERA DELLO SWING. Quello di Biamonte/Micocci è ancor oggi un bel libro da rileggere, scritto in modo chiaro e già con qualche cenno critico. L'impostazione è la solita di tutti i tascabili nati per divulgare velocemente il più ampio spettro di lettori: si parte dalle origini e si arriva ai tempi più recenti di quel periodo, con in più una utile appendice discografica di riferimento ad ogni capitolo.
  Quelli di Franchini, pur seguendo l'evoluzione storica del jazz, nei vari capitoli si sofferma anche sulle storie più personali dei vari musicisti con qualche aneddoto, rendendo meno scontata la lettura. Un cenno sulla grafica delle copertine, che allora erano firmate da uno dei maestri del fumetto italiano, Guido Crepax. 
   Il '61 esce il tascabile della Ricordi, IL JAZZ DI OGGI di Arrigo Polillo (che per diversi anni ha diretto la rivista Musica Jazz), che è la giusta continuazione dei libri scritti, nella stessa collana da Franchini, perchè si occupa unicamente del jazz moderno, iniziando il suo racconto dal bop in poi. La copertina è sempre di Crepax.
  Con un ritardo di ben sei anni rispetto all'edizione inglese, l'editore Astrolabio nel 1964 stampa il piccolo libro: IL JAZZ di Martin Lindsay (ediz. orig.: Teach Yourself Jazz, Inghilterra - 1958). Il libro di Lindsay è più un manuale tecnico e guida all'ascolto che storico, ci sono infatti anche brevissimi spartiti. Comunque una lettura interessante.
   A quanto pare, i libri sul jazz pubblicati in Francia erano molto ambiti dagli editori italiani, negli anni '60, infatti l'Editrice AMZ di Milano pubblica nel 1964 un mini volumetto dal formato quadrato dal titolo: DALLA BAMBOULA AL BE-BOP...TUTTO SUL JAZZ di Jean Tarse (ediz. orig.: Le Jazz, Francia - 1959). Questo piccolo libro era inserito in una collana il cui strillo pubblicitario era: 'L'enciclopedia tascabile della vita pratica'. Infatti è scritto in modo chiaro e conoscendo la materia nei suoi aspetti più vari, tanto che l'autore, per la stessa collana ha scritto anche un mini libro sul ballo. Si parte dal Blues e si arriva sino Be-Bop ed al Cool, tutto chiaramente molto accennato e sintetico. C'è un capitolo sulla terminologia ed uno con brevissimi cenni biografici dei nomi più importanti dei vari generi, chiudendo con la discografia minima consigliata.  
   Nel 1967, già pubblicata da Longanesi in edizione rilegata con copertina gialla, la versione in formato tascabile de: I PRIMI DEL JAZZ di Milton Mezzrow e Bernard Wolfe (ediz. orig.: Really The Blues, Inghilterra - 1946). Questa versione era inserita in una serie di 'libri pocket' ed al loro interno venivano inserite delle pagine pubblicitarie, probabilmente per tenere basso il prezzo (350 Lire). Mezzrow era un clarinettista e sassofonista di Chicago che suonò anche con Armstrong, e questo libro è un po' anche la sua storia ed il suo percorso all'interno del mondo del jazz di quel periodo. E' un libro senza tempo, tanto che ha avuto la fortuna di essere ristampato prima dalla Mondadori e recentemente dalla RedStarPress con il titolo di Ecco i blues.
   Nello stesso anno il '67, sempre con l'idea di diffondere il culto del jazz in Italia attraverso delle piccole guide facili e sintetiche da leggere, la Mondadori fa uscire: CONOSCERE IL JAZZ di Arrigo Polillo. L'impostazione è sempre la stessa: cenni storici, guida agli stili e sintetiche biografie seguite cenni di bibliografia e discografia consigliata.
   Si fa un balzo di ben quattro anni, siamo nel 1971, e finalmente esce un libro sul jazz non più storico divulgativo, ma d'inchiesta. L'editore Cappelli ci propone l'interessante: JAZZ INCHIESTA ITALIA di Enrico Cogno. L'autore è stato collaboratore di Musica Jazz, ma anche un noto pubblicitario. In questo libro, Cogno ci racconta la vita del jazz in Italia dei primi anni '70 con le testimonianze dei diretti interessati, i musicisti in primis, ma anche intervistando critici, attori e giovani studenti in giro per la penisola. Un vero spaccato di vita reale e sociale del periodo. Nel 2018 è stato ristampato dalla Arcana Editrice.

di Gianfranco Ventrosini   
  





         

mercoledì 12 giugno 2019

IL TOCCO LIEVE DI AHMAD JAMAL: JAZZ, SOUL, FUNK, FENDER RHODES & ORCHESTRA

   I dischi di soul jazz bisogna considerarli per quel che sono, ovvero dei bei dischi dalle sonorità sofisticate ma di facile ascolto. Con i dovuti distinguo da disco a disco, perchè non tutti sono dei capolavori, sia ben chiaro. Gran parte dei jazzisti che negli anni '70 hanno virato verso questo genere di musica più commerciale, probabilmente anche per rifarsi dei mancati guadagni suonando jazz più per gli 'storici' che per le vendite dei loro dischi, era di alto livello. 
   Ahmad Jamal nella sua lunga carriera di pianista jazz, ha sempre preferito le sonorità calde e ariose del piano acustico, avendo un tocco sui tasti poco percussivo e molto melodico. In AHMAD JAMAL '73, il suo primo lavoro inciso per la 20th Century Records, c'è un Jamal alle prese con il Fender Rhodes (il piano elettrico per eccellenza). Armonizza e contrappunta con una semplicità, che forse altri suoi colleghi, sullo stesso strumento e nello stesso periodo non hanno saputo fare. Ad accompagnarlo ci sono i fiati, gli archi e le ritmiche dell'orchestra diretta da Richard Evans, che ha anche arrangiato tutti i brani e prodotto il disco insieme allo stesso Jamal.  
    La versione di The World Is A Ghetto (che l'anno prima schizzò nelle vette più alte delle classifiche americane di R'n'B e Pop grazie ai War che la composero e inserirono nel loro primo album omonimo) potrebbe essere uscito tranquillamente da un qualsiasi disco dei MFSB, così come Peace At Last, la traccia finale del disco, dove su una ritmica incalzante, Jamal intesse improvvisazioni sul tema.
  Children Of The Night, scritta originariamente da una delle coppie più attive del Philadelphia Sound (Linda Creed e Thom Bell) è un classico soul-mood.
  La cover di Superstition di Stevie Wonder, un brano funky per eccellenza, nelle mani di Ahmad Jamal assume un aspetto decisamente più jazzato, in linea con le sonorità elettriche prodotte nello stesso periodo dal collega Herbie Hancock.
   In Trilby (scritta da uno degli autori Motown legato ad alcuni successi di Stevie Wonder: Orlando Murden) la fanno da padroni i violini ed i cori con le mani di Jamal che scorrono veloci sui tasti regalando un brillante tappeto di note.
  Sustah, Sustah e Soul Girl sono due ballad e Jamal le interpreta più da comprimario, dando più spazio all'orchestra, anche se nella prima, l'intreccio sonoro diventa improvvisamente nel finale del brano, più 'funk'. 
  Che dire, il modo di suonare il piano di Ahmad Jamal era molto amato da Miles Davis. Fluido, estroso, ma senza fronzoli, tanto che qualche critico azzardò a definirlo il precursore del 'cool-jazz'. Nella sua lunga carriera artistica, Jamal ha quasi sempre prediletto suonare in trio acustico, infatti il suo periodo con il Fender Rhodes è durato poco più di una decina d'anni e questo suo disco del '73 rimane tuttora quello più riuscito.

a cura di : Gianfranco Ventrosini   

 

lunedì 27 maggio 2019

LA METEORA JARRETT NELLA SFERA ELETTRICA DI MILES DAVIS

   Keith Jarrett era un giovane ventenne, quando Miles Davis lo vide dal vivo e gli chiese di far parte del suo gruppo, reduce dalle sessions immortalate nei solchi dell'album IN A SILENT WAY. 
   Ecco che per tutto il 1970, Jarrett si trova catapultato nella sfera elettrica di Davis, quello di BITCHES BREW, senza averne fatto parte. Lo vediamo agitarsi sui tasti del Fender Rodhes (il piano elettrico che caratterizzerà tutto il sound 'fusion' degli anni a seguire) sul palco dell'intensissimo concerto che Davis tenne all'Isola di Wight, dove al Clavinet c'è anche il giovane Chick Corea. Poi è la volta della quattro giorni di esibizioni registrate al Fillmore East di New York City, delle sessioni live tenute al Cellar Door di Washington (in parte anche riprese per la pubblicazione di LIVE EVIL), ed infine in studio il 19 Maggio 1970 per registrare Honky Tonk, incluso nella compilation di inediti GET UP WITH IT, redatta dalla stesso Davis nel 1974.    
   C'è da dire che il Keith Jarrett pianista non ha mai amato suonare elettrico, ma a Miles Davis non seppe dire di no, e gli è stato sempre riconoscente. La sua breve avventura al fianco di Miles, gli diede molta visibilità e fama verso quello che poi sarà il suo grande seguito di estimatori. Nel filmato del concerto di Wight, Jarrett lo si vede agitarsi sulla tastiera del piano elettrico e farsi trascinare coinvolto da quel sound così corposo, senza indugi. 
   Ma si vede che già covava segretamente dentro di lui, il Jarrett musicista, esigente con se stesso e con il suo pubblico, che ci ritroviamo ancor oggi: perfezionista e spocchioso.

a cura di : Gianfranco Ventrosini



giovedì 9 maggio 2019

IL SOULFUL SOUND DI DENNIS YOST & CLASSICS IV


   Nel 1978 i Santana pubblicarono l'album INNER SECRETS, uno dei lavori discografici meno apprezzati dai fan del buon Carlos Santana, che forse affrancato dai ritmi latin del suo tipico sound, volle virare su strade più ruvide tipicamente rock. Il risultato finale, anche se il disco non andò poi così male nelle vendite, non convinse molto. Eppure la facciata A del disco si chiudeva con un piccolo gioiellino: Stormy. E parte proprio da qui la nostra storia.
  James Cobb e Buddie Buie, gli autori di Stormy (chitarrista il primo e produttore il secondo) sono stati la penna dei maggiori successi dei CLASSICS IV. 
   Siamo a Jacksonville in Florida (USA) agli inizi degli anni '60 dove il giovane Dennis Yost suona la batteria in un gruppo rock del giro studentesco, The Echoes. Ma è solo nel 1965 che Yost trova i compagni giusti per formare una band per fare sul serio. Con lui a formare il primo nucleo della band denominata The Classics: ci sono James Cobb alla chitarra, Walter Eaton alle tastiere, Joe Wilson alla seconda chitarra (poi sostituito da Dean Daughtry) e dal nostro Dennis Yost alla batteria, ma dotato di una voce marcatamente soul, tanto da farsi rimpiazzare alla batteria da Kim Venable, per diventare la voce solista dei futuri CLASSICS IV.  Per i primi due anni suonavano in giro a livello locale ed ebbero la soddisfazione di farsi notare con due canzoncine commerciali come Pollyanna e Till Then.         
   Ma l'aria stava cambiando, la 'beatlesmania' aveva invaso anche gli USA e Yost e soci, dismessi gli abiti da bravi ragazzi, si adeguano al look beat del periodo e si trasferiscono nel 1967 ad Atlanta in Georgia dove grazie al The Lowery Music Group che li rappresenta, firmano subito un contratto discografico con la Capitol Records. Proprio lì ad Atlanta un sassofonista locale, Mike Sharpe, si fa notare con un hit strumentale che spopola in tutta la Georgia. Spooky cattura l'attenzione del produttore Baddy Buie che insieme al chitarrista dei Classics IV, James Cobb, e ne fanno una versione con testo affidato alla voce di Dennis Yost. Le radio locali iniziano a farlo girare sui loro piatti e nel giro di un anno, Spooky versione Yost & C., diventa un successo in tutti gli USA, scalando la classifica di Billboard's Hot 100 fino al terzo posto all'inizio del 1968. Anche nella lontana Inghilterra Spooky si fa notare, salendo fino al 46° posto in classifica. 
   Le ospitate in TV e le prime esibizioni live confermano Yost come frontman e voce solista del gruppo, lasciando le bacchette dei tamburi a Kim Venable. Quindi ci si rimette al lavoro per creare un altro successo che dovrebbe essere il brano Soul Train, ma è un tonfo clamoroso. Soul Train è troppo simile a Spooky e quindi non attecchisce. 
   La coppia di autori Cobb e Buie si danno da fare e dal cappello a cilindro esce pronto per scalare le classifiche Stormy. Le sonorità sono quelle 'soulfull' tipiche del sound dei CLASSICS IV caratterizzata dalla voce dai toni caldi di Yost. Ma in Stormy ci sono anche le basi per quello che sarà il futuro 'soft southern rock' di un altro gruppo che nascerà di lì a poco da una costola fuggitiva dei CLASSICS IV: la The Atlanta Rhythm Section. 
   Stormy arrivò in classifica fino al numero 5 e vendette un milione di copie nel 1969. Poco dopo, nello stesso anno, arrivò con Traces, altro hit in classifica, il secondo disco d'oro. Il '69 si rivelò un anno memorabile per i ragazzi di Jacksonville, visto che gli ormai collaudati autori Cobb e Buie partorirono altri due successi da alta classifica con Every Day With You Girl e Change Of Heart.  
  Ma la crisi del gruppo era dietro l'angolo. Cobb e Dean Daughtry (che da tempo era subentrato a Joe Wilson) lasciarono Yost per andare a formare insieme Buie ed alcuni membri del gruppo che suonava con Roy Orbison, la The Atlanta Rhythm Section. Una formazione di southern rock che per tutti i '70 ebbe un buon seguito di pubblico e inanellò alcuni successi da medio-alta classifica, tra cui anche la cover di Spooky.
  Yost continuò da solo a fare concerti, ma senza un contratto discografico ed un hit da alta classifica fino al 1972, quando firmò per la Imperial Records e riprese la denominazione di DENNIS YOST & CLASSSICS IV. Ma il tempo dei grandi successi era ormai tramontato. 
  Nel 1993 decise di fare base a Nashville continuando ad esibirsi dal vivo, interpretando soprattutto cover, che certo non mancavano già nel suo repertorio. Spooky che dava il titolo al primo album, è stata la prima. Nel secondo album comparivano le cover di It Ain't Necessarily So (G. & I. Gershwin) e un'improbabile versione di The Girl From Ipanema / Garota De Ipanema (A. C. Jobim e V. de Moraes). In TRACES, loro terzo album, c'era una versione di Sunny (B. Hebb). In WHAT AM I CRYING FOR?, loro album del '73, interpretarono una corale It Never Rains In Southern California (A. Hammond / L. Hazlewood).
  Il 17 Maggio del 2008, il 65enne Yost appare per l'ultima volta in concerto dal vivo su un palco, reduce da problemi di salute. Dopo pochi mesi, il 7 Dicembre scompare per gravi problemi respiratori. In concomitanza del 40° anniversario dell'entrata nella Billboard's Top Ten di Stormy.  

a cura di : Gianfranco Ventrosini
     

   











   

martedì 30 aprile 2019

LA MUSICA IN TASCA. PICCOLA STORIA DEI LIBRI TASCABILI CHE PARLANO DI MUSICA _ Capitolo 02


   All'inizio degli anni '60, la G. Ricordi & C. di MIlano era nota soprattutto per la pubblicazione di spartiti musicali. Di lì a poco divenne anche il punto di riferimento di gran parte della musica leggera italiana ed in particolar modo del fenomeno dei cantautori, che alla Ricordi trovarono il loro punto di ritrovo e trampolino di lancio per la loro fortunata carriera discografica. 
  Ma tra il 1960 ed il 1961, la Ricordi diede alle stampe la prima collana di libri in formato tascabile sul jazz. Al prezzo di 700 Lire ognuno, con foliazione tra le cento/centoquaranta pagine, nacque la serie di libri denominata KING OF JAZZ. 
  Dodici piccoli volumetti scritti dai più noti critici di jazz del tempo, per la maggior parte inglesi, essendo traduzioni italiane di libri già editi in Inghilterra nel 1959 dalla Cassell & Co. Ltd. L'autore più noto della collana KING OF JAZZ, qui in Italia è stato sicuramente Paul Oliver per la sua 'La grande storia del Blues' tradotta in italiano in un paio di edizioni, ma da tempo fuori catalogo. Solo quattro volumi della collana della Ricordi sono stati scritti da noti critici italiani di musica jazz, tutti redattori della rivista specializzata (ancora oggi in edicola) Musica Jazz: Vittorio Franchini, Bruno Schiozzi, Roberto Leydi e Pino Maffei. 
   Negli anni '60 erano già molti gli appassionati di jazz in Italia e quindi queste agili e ben scritte biografie di jazzisti di cui tutti allora avevano almeno ascoltato un disco, saranno state subito acquistate e lette. Tutti i libri avevano una veste grafica coordinata ben riconoscibile, con copertine colorate laminate e con risvolto interno che ha aiutato nel tempo la loro conservazione. Attualmente non sono di facile reperibilità se non nel circuito dell'antiquariato bibliografico, ma ogni tanto spuntano su qualche bancarella di libri usati. 
  Alcune biografie, per un appassionato di jazz non collezionista di libri possono pure sembrare superflue. Di Count Basie, Duke Ellington, Louis Armstrong e Dizzy Gillespie in Italia la Minimum Fax ha tradotto e più volte ristampato le biografie ufficiali. Così come di Charlie Parker ci sono ben tre libri biografici (attualmente stampati da Stampa Alternativa, EDT e Minimum Fax), ma quella edita dalla Ricordi è sicuramente la più significativa della collana perchè, essendo stampata nel 1961 (l'edizione inglese è del 1959) è stata la prima biografia sul sassofonista di Kansas City uscita in Italia a soli cinque dalla sua morte avvenuta nel 1955. Di Fats Waller è stata fatta tempo fa una trasposizione a fumetti. Ma ad esempio su Sarah Vaughan o Lester Young, non vorrei sbagliarmi, ma ancora si aspetta a tradurre qualcosa. Per gli altri artisti inseriti nella collana come Benny Goodman, Bessie Smith, King Oliver o Bix Beiderbecke, essendo nomi molto datati, forse non avrebbe senso riproporli oggi.

a cura di : Gianfranco Ventrosini     







venerdì 19 aprile 2019

PHAROAH SANDERS: QUANDO IL SAX, DA FREE DIVENTO' SOUL



   Pharoah Sanders con il suo sax tenore ha dimostrato sin dall'inizio della sua carriera come musicista jazz, di andare sempre oltre gli stili e la tecnica strumentale. Il suo incontro con John Coltrane (entrambe suonavano il sax tenore) è stato fondamentale per farsi conoscere nel mondo del jazz.
   Con Coltrane ha condiviso una buona parte del periodo in cui il jazz diventava 'free' abbandonadosi a schemi interpretativi liberi e pieni d'improvvisazione. Ma come ben sappiamo, tutto ha una fine, ed anche il capitolo del 'free jazz' a conclusione degli anni '60 si chiude e per molti jazzisti di gran fama iniziano periodi di oblio o di virate verso altri mondi sonori.
   Negli anni '70, non sono pochi i jazzisti che, facendo di necessità virtù, decisero di sperimentare un jazz più commerciale e radiofonico. LOVE WILL FIND AWAY per la Arista Records, pubblicato nel 1977, è il capitolo discografico che avvicina Sanders alle sonorità della soul music. Ad onor del vero, Sanders era già avvezzo all'R'n'B, avendolo digerito alla fine degli anni '50 quando a Little Rock, sua città natale, s'intrufolava nei vari club dove suonavano i vari gruppi di jazz ed r'n'b, e poi appena trasferitosi a New York City dove suonava in varie band di r'n'b. E prima di LOVE WILL FIND AWAY, nel 1971 c'era stato l'incontro con Stanley Clarke per l'album BLACK UNITY dove in due lunghe suite, il caos sonoro tipico del free-jazz si amalgamava con le sonorità black provenienti dall'Africa. 
   LOVE WILL FIND AWAY è un disco ancor'oggi fresco e piacevole, con un Sanders che non manca (pur essendo un lavoro più commerciale e di facile ascolto) di rimarcare con il suo sax le sue radici nel free jazz. La produzione del disco è affidata a Norman Connors,  batterista jazz, formatosi negli anni '70 nei dischi dei sassofonisti Carlos Garnett, Sam Rivers e dello stesso Sanders nel periodo in cui incise per la Impulse. Ma Connors ai tempi di LOVE WILL FIND AWAY aveva già virato verso sonorità più soul ed r'n'b, inanellando una serie di successi discografici avvalendosi anche delle splendide voci di Michael Henderson, Jean Carne e Phyllis Hyman. Connors collabora anche agli arrangiamenti, nella composizione di alcuni brani e canta brevemente in un duetto con Phyllis Hyman nel brano Everything I Have Is Good che chiude il disco, con un arrangiamento soul-reggae e da solo in Pharomba scritto insieme a Sanders, dove su una base di sonorità caraibiche il sax di sanders vola libero. La Hyman la ritroviamo anche in Love Is Here ed in As you Are (il brano più soul ed anche più bello dell'intero disco). La cantante era reduce dall'enorme successo ottenuto prestando la sua voce nel disco di Connors, YOU ARE MY STARSHIP pubblicato dalla Buddha Records nel 1976 che arrivò al 5° posto nella classifica r'n'b ed al primo in quella jazz. 
   Nel disco compare anche la cover di Got To Give It Up di Marvin Gaye che chiude il lato A senza convincere più di tanto, tanto da sembrare più un riempitivo. Altra cover dove un arrangiamento d'archi la fanno da padrone, è Answer Me, My Love. originariamente una popular song di origine tedesca, che in seguito ritradotta in inglese, divenne un successo di Nat King Cole nel 1954. A chiusura non rimane che citare il brano di apertura della facciata A che da il titolo al disco Love Will Find Away, molto lirico dove si notano i contrappunti solistici del piano di Bobby Lyle, altro talento che poteva già vantare una jam session con Jimi Hendrix (poco prima di morire nel 1970, Jimi sembra volesse formare un gruppo di jazz rock) ed un ingaggio per il tour del '74 della band Sly & Family Stone.
   Dopo questa parentesi tra il pop ed il soul jazz, la discografia di Pharoah Sanders ha continuato su binari più jazzistici, per poi ritrovarsi in ambito soul, anni dopo, nel 1998, in versione di ospite nel disco di Terry Callier per la Verve Records, TIME PEACE.     

a cura di: Gianfranco Ventrosini