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venerdì 28 giugno 2019

QUANDO L'ISPIRAZIONE NASCE DALLA PRIVAZIONE DELLA LIBERTA': IL SOUL/FUNK DI IKE WHITE


  Avere come sponsor Stevie Wonder quando sei un perfetto sconosciuto, non è da tutti. Se poi meditiamo sul fatto che il nome di Ike White non è nemmeno menzionato tra le pagine di alcun libro dedicato alla black-music e che solo qualche DJ statunitense o londinese l'abbia riscoperto in tempi più recenti, questo ci conferma ancora una volta che il talento, spesso, non si accompagna al successo. 
  Di Ike White si sa veramente poco, se non che all'epoca dell'uscita di questo suo unico disco, CHANGING TIMES (1976), si trovava recluso in una piccola prigione della contea di Los Angeles. Siamo alla metà degli anni '70, il decennio in cui esplode ed implode tutto nella musica. I generi si fondono tra loro e soprattutto la black-music, da soul, da funk, diventa 'Disco' grazie ai Dj che la manipolano e la mixano sui loro piatti nelle discoteche New York. 
   Il disco, realizzato a quanto sembra interamente all'interno della prigione, ha la fortuna di avere la produzione nelle mani di Jerry Goldstein (già produttore dei War) e come musicisti: Doug Rauch al basso (che ha suonato anche con Carlos Santana) e alla batteria Greg Errico (uno dei fondatori dei Sly & Family Stone). White invece, oltre a comporre tutti i brani del disco (da solo o in compagnia) suona le tastiere e la chitarra elettrica.
  Evidentemente le idee e le contaminazioni sono lì tutte nella mente di White, pronte per essere incise nei sochi di questo disco che rappresenta un po' il suo riscatto con il mondo esterno, oltre le sbarre della sua cella.


   C'è il soul-blues crudo di Changin' Time che apre le danze della facciata A, seguita da una tenera ballata come Coming' Home (forse un augurio a se stesso?) e prosegue con la tirata  iniziale rockeggiante della sua chitarra elettrica in Antoniette, che nel finale si addolcisce con note più jazzate.  
   Il lato B inizia con I Remember George, un blues dal sapore spaziale con in evidenza il wa-wa della chitarra di White. Happy Face gli fa ritrovare la sua anima più soul che diventa più funk nella conclusiva Love And Affection.
  La migliore conclusione la lasciamo alle parole di Stevie Wonder immortalate per sempre sul retro della copertina del disco di Ike White: "Ci sono molti "Ike Whites" in questo mondo - diamo loro una possibilità - in modo che il colore della loro pelle non sia destinato per sempre dietro le sbarre".

di : Gianfranco Ventrosini

  

martedì 25 giugno 2019

LA MUSICA IN TASCA: PICCOLA STORIA DEI LIBRI TASCABILI CHE PARLANO DI MUSICA _ Capitolo 03

  La musica jazz in Italia, fino alla fine degli anni '50 è stata un po' una passione da carbonari. Con la fine della seconda guerra mondiale, dal 1945 iniziarono ad essere pubblicati i primi numeri della rivista Musica Jazz, nata dall'illuminata passione del giornalista Giarcarlo Testoni. Musica Jazz è stata per decenni il punto di riferimento per tutti gli appassionati e non solo. Vi hanno scritto le più importanti 'penne' critiche ed i maggiori storici di musica jazz italiani e stranieri. Gli stessi che negli anni a seguire hanno scritto molti libri sull'argomento, che ancor oggi sono un punto di riferimento per chi voglia approfondire, storicamente e criticamente l'evoluzione della musica jazz.
   Per quanto riguarda questa piccola storia dei libri tascabili sul jazz pubblicati in Italia, solo recentemente sono entrato in possesso casualmente, di quello che dovrebbe essere il primo testo sul jazz 'in formato tascabile' pubblicato in Italia. Mi riferisco al libro I MAESTRI DEL JAZZ di Lucien Malson (ediz. orig.: Le Maitres du Jazz - Francia, 1954) stampato dall'editore Garzanti nel 1954 fino alla terza edizione (quella in mio possesso) nel 1957. Quello di Malson, giornalista che ha scritto di jazz per le riviste Jazz Hot e Jazz Magazine, è un libro di facile lettura, con poco più di un centinaio di pagine, fermandosi storiograficamente al Be-Bop.
  Nel 1959 l'editore Feltrinelli per la famosa collana Universale traduce e da alle stampe MANUALE DEL JAZZ di Barry Ulanov (ediz. orig.: A Handbook of Jazz, USA - 1957), che viene anche riproposto in una seconda edizione nel'60 in versione aggiornata. Ulanov è stato un'altra firma storica del giornalismo musicale in America. Il suo è un vero e sintetico manuale, diviso per voci e con una seconda parte dedicata ai singoli musicisti, come se fosse una mini-enciclopedia.   
   Per leggere qualcosa di più corposo dobbiamo aspettare IL NUOVO NUOVO LIBRO DEL JAZZ di Joachim Ernst Berendt (ediz. orig.: Das Neue Jazzbuch - Germania, 1959) edito da Sansoni nel 1960. Il libro di Berendt è un punto saldo nella saggistica della musica jazz, tanto da meritare varie ristampe negli anni per editori diversi, più o meno aggiornate (Garzanti, Vallardi, Odoya). Nella prima edizione italiana di quasi 400 pagine, l'autore si ferma accennando ai primi anni '70, o meglio a quello che potrebbe essere la scena futura del jazz. La cosa è un po' strana, perchè se il libro originale è del '59 e la versione italiana della Sansoni è stata stampata a Marzo del 1960, è arduo pensare che Berendt avesse informazioni tali da prevedere quello che sarebbe accaduto negli anni '70. Infatti l'aggiornamento arriva con l'edizione corposa da 483 pagine che pubblicherà l'editore Vallardi nel 1986, dove si arriva fino al "jazz-rock degli anni '60 e poi fusion negli anni '70" con un breve cenno a quello che stava concretizzandosi stilisticamente nel jazz, agli albori dei primi anni '80.
   Ma il 1960 si rivela un anno interessante per quanto riguarda il mercato librario del jazz in formato tascabile. Escono a distanza di qualche mese l'uno dall'altro, IL LIBRO DEL JAZZ di S. G. Biamonte ed E. Micocci edito dall'editore Cappelli, e ben due tascabili della Ricordi scritti da Vittorio Franchini: IL JAZZ: LA TRADIZIONE e L'ERA DELLO SWING. Quello di Biamonte/Micocci è ancor oggi un bel libro da rileggere, scritto in modo chiaro e già con qualche cenno critico. L'impostazione è la solita di tutti i tascabili nati per divulgare velocemente il più ampio spettro di lettori: si parte dalle origini e si arriva ai tempi più recenti di quel periodo, con in più una utile appendice discografica di riferimento ad ogni capitolo.
  Quelli di Franchini, pur seguendo l'evoluzione storica del jazz, nei vari capitoli si sofferma anche sulle storie più personali dei vari musicisti con qualche aneddoto, rendendo meno scontata la lettura. Un cenno sulla grafica delle copertine, che allora erano firmate da uno dei maestri del fumetto italiano, Guido Crepax. 
   Il '61 esce il tascabile della Ricordi, IL JAZZ DI OGGI di Arrigo Polillo (che per diversi anni ha diretto la rivista Musica Jazz), che è la giusta continuazione dei libri scritti, nella stessa collana da Franchini, perchè si occupa unicamente del jazz moderno, iniziando il suo racconto dal bop in poi. La copertina è sempre di Crepax.
  Con un ritardo di ben sei anni rispetto all'edizione inglese, l'editore Astrolabio nel 1964 stampa il piccolo libro: IL JAZZ di Martin Lindsay (ediz. orig.: Teach Yourself Jazz, Inghilterra - 1958). Il libro di Lindsay è più un manuale tecnico e guida all'ascolto che storico, ci sono infatti anche brevissimi spartiti. Comunque una lettura interessante.
   A quanto pare, i libri sul jazz pubblicati in Francia erano molto ambiti dagli editori italiani, negli anni '60, infatti l'Editrice AMZ di Milano pubblica nel 1964 un mini volumetto dal formato quadrato dal titolo: DALLA BAMBOULA AL BE-BOP...TUTTO SUL JAZZ di Jean Tarse (ediz. orig.: Le Jazz, Francia - 1959). Questo piccolo libro era inserito in una collana il cui strillo pubblicitario era: 'L'enciclopedia tascabile della vita pratica'. Infatti è scritto in modo chiaro e conoscendo la materia nei suoi aspetti più vari, tanto che l'autore, per la stessa collana ha scritto anche un mini libro sul ballo. Si parte dal Blues e si arriva sino Be-Bop ed al Cool, tutto chiaramente molto accennato e sintetico. C'è un capitolo sulla terminologia ed uno con brevissimi cenni biografici dei nomi più importanti dei vari generi, chiudendo con la discografia minima consigliata.  
   Nel 1967, già pubblicata da Longanesi in edizione rilegata con copertina gialla, la versione in formato tascabile de: I PRIMI DEL JAZZ di Milton Mezzrow e Bernard Wolfe (ediz. orig.: Really The Blues, Inghilterra - 1946). Questa versione era inserita in una serie di 'libri pocket' ed al loro interno venivano inserite delle pagine pubblicitarie, probabilmente per tenere basso il prezzo (350 Lire). Mezzrow era un clarinettista e sassofonista di Chicago che suonò anche con Armstrong, e questo libro è un po' anche la sua storia ed il suo percorso all'interno del mondo del jazz di quel periodo. E' un libro senza tempo, tanto che ha avuto la fortuna di essere ristampato prima dalla Mondadori e recentemente dalla RedStarPress con il titolo di Ecco i blues.
   Nello stesso anno il '67, sempre con l'idea di diffondere il culto del jazz in Italia attraverso delle piccole guide facili e sintetiche da leggere, la Mondadori fa uscire: CONOSCERE IL JAZZ di Arrigo Polillo. L'impostazione è sempre la stessa: cenni storici, guida agli stili e sintetiche biografie seguite cenni di bibliografia e discografia consigliata.
   Si fa un balzo di ben quattro anni, siamo nel 1971, e finalmente esce un libro sul jazz non più storico divulgativo, ma d'inchiesta. L'editore Cappelli ci propone l'interessante: JAZZ INCHIESTA ITALIA di Enrico Cogno. L'autore è stato collaboratore di Musica Jazz, ma anche un noto pubblicitario. In questo libro, Cogno ci racconta la vita del jazz in Italia dei primi anni '70 con le testimonianze dei diretti interessati, i musicisti in primis, ma anche intervistando critici, attori e giovani studenti in giro per la penisola. Un vero spaccato di vita reale e sociale del periodo. Nel 2018 è stato ristampato dalla Arcana Editrice.

di Gianfranco Ventrosini   
  





         

mercoledì 12 giugno 2019

IL TOCCO LIEVE DI AHMAD JAMAL: JAZZ, SOUL, FUNK, FENDER RHODES & ORCHESTRA

   I dischi di soul jazz bisogna considerarli per quel che sono, ovvero dei bei dischi dalle sonorità sofisticate ma di facile ascolto. Con i dovuti distinguo da disco a disco, perchè non tutti sono dei capolavori, sia ben chiaro. Gran parte dei jazzisti che negli anni '70 hanno virato verso questo genere di musica più commerciale, probabilmente anche per rifarsi dei mancati guadagni suonando jazz più per gli 'storici' che per le vendite dei loro dischi, era di alto livello. 
   Ahmad Jamal nella sua lunga carriera di pianista jazz, ha sempre preferito le sonorità calde e ariose del piano acustico, avendo un tocco sui tasti poco percussivo e molto melodico. In AHMAD JAMAL '73, il suo primo lavoro inciso per la 20th Century Records, c'è un Jamal alle prese con il Fender Rhodes (il piano elettrico per eccellenza). Armonizza e contrappunta con una semplicità, che forse altri suoi colleghi, sullo stesso strumento e nello stesso periodo non hanno saputo fare. Ad accompagnarlo ci sono i fiati, gli archi e le ritmiche dell'orchestra diretta da Richard Evans, che ha anche arrangiato tutti i brani e prodotto il disco insieme allo stesso Jamal.  
    La versione di The World Is A Ghetto (che l'anno prima schizzò nelle vette più alte delle classifiche americane di R'n'B e Pop grazie ai War che la composero e inserirono nel loro primo album omonimo) potrebbe essere uscito tranquillamente da un qualsiasi disco dei MFSB, così come Peace At Last, la traccia finale del disco, dove su una ritmica incalzante, Jamal intesse improvvisazioni sul tema.
  Children Of The Night, scritta originariamente da una delle coppie più attive del Philadelphia Sound (Linda Creed e Thom Bell) è un classico soul-mood.
  La cover di Superstition di Stevie Wonder, un brano funky per eccellenza, nelle mani di Ahmad Jamal assume un aspetto decisamente più jazzato, in linea con le sonorità elettriche prodotte nello stesso periodo dal collega Herbie Hancock.
   In Trilby (scritta da uno degli autori Motown legato ad alcuni successi di Stevie Wonder: Orlando Murden) la fanno da padroni i violini ed i cori con le mani di Jamal che scorrono veloci sui tasti regalando un brillante tappeto di note.
  Sustah, Sustah e Soul Girl sono due ballad e Jamal le interpreta più da comprimario, dando più spazio all'orchestra, anche se nella prima, l'intreccio sonoro diventa improvvisamente nel finale del brano, più 'funk'. 
  Che dire, il modo di suonare il piano di Ahmad Jamal era molto amato da Miles Davis. Fluido, estroso, ma senza fronzoli, tanto che qualche critico azzardò a definirlo il precursore del 'cool-jazz'. Nella sua lunga carriera artistica, Jamal ha quasi sempre prediletto suonare in trio acustico, infatti il suo periodo con il Fender Rhodes è durato poco più di una decina d'anni e questo suo disco del '73 rimane tuttora quello più riuscito.

a cura di : Gianfranco Ventrosini